La potenza delle parole sui social

Pubblicare un post su un social o mandare un messaggio su whatsapp è oggi un mezzo di comunicazione facile, veloce e di una portata che non ha limiti di tempo e spazio. Attraverso schermi e tastiere dei vari dispositivi raggiungiamo centinaia, a volte migliaia o addirittura centinaia di migliaia di persone, anche coloro che non conosciamo direttamente. Su Fb a seconda delle nostre impostazioni e se il post fa parte di un profilo pubblico o privato, abbiamo la possibilità di far conoscere il nostro “pensiero” nello stesso momento a un numero incredibile di persone che abitano in ogni parte del pianeta. Un messaggio virtuale arriva in un batter d’occhio e determina una reazione in chi lo visualizza. Sarebbe buona educazione rispondere ai messaggi ma non sempre siamo disponibili, oppure può capitare di non essere proprio intenzionati a rispondere. Per non parlare poi dell’autentico delirio dei messaggi vocali che impongono senza requie di dover trovare il modo di ascoltarli ovunque siamo e in qualsiasi contesto, ritagliandosi uno spazio in cui non si venga ascoltati da chi si ha vicino, soprattutto se, come spesso accade, detti messaggi durano svariati minuti! Personalmente provo profondo disagio ogni volta che ricevo un messaggio vocale, perchè voglio dare valore a chi me lo manda, ma quasi mai sono nelle condizioni di poterlo ascoltare con la dovuta privacy e attenzione. Il fatto è che chi scrive un messaggio generalmente lo fa per comunicare qualcosa e se ha una conferma di ricezione (su whatsapp è possibile togliere questa opzione), sa che almeno è stato ricevuto, altrimenti si aspetta un risposta e se non arriva subito o in breve tempo l’intento comunicativo pare fallito e genera emozioni negative. Questo tipo di comunicazione non tiene conto del contesto e delle emozioni di chi scrive e molto spesso evoca in chi legge altrettante emozioni derivate da ciò che viene attribuito a chi scrive soltanto per propria decodifica. È molto facile proiettare le proprie interpretazioni su ciò che si legge scritto da altri, e pertanto è molto probabile distorcerne il fine e il contenuto a causa del mezzo. Non è possibile sapere l’intenzione precisa di chi scrive, in che momento e condizione emotiva nasce quel messaggio e pertanto le reazioni di chi legge o risponde nella maggior parte dei casi non scaturiscono da relazioni reali e contingenti. Le parole sono solo lette e non pronunciate ma quasi nessuno è cosciente della differenza. In poche parole: senza relazione non c’è connessione emotiva e la comunicazione virtuale può risultarne distorta sia come percezione che come feedback del messaggio.

Questo tipo di comunicazione porta con sè l’aspettativa di una connessione virtuale sempre attiva, ma si tratta di una connessione via internet e non certo attraverso le relazioni. Non sentiamo il tono delle parole, non  conosciamo il contesto in cui sono nate e non sappiamo che cosa c’è tra le righe.

In questi giorni mi è capitato di condividere su fb un pensiero carico di entusiasmo su un autore che sto leggendo, attraverso poche parole certamente opinabili e non esaustive e puntualmente molte persone hanno voluto prendere posizione nei confronti di quell’autore o sul mio post secondo un loro bisogno che non aveva nulla a che vedere con la mia intenzione comunicativa riferita al qui e ora della mia lettura. Lo stesso accade quando si condividono posizioni educative sui figli, idee politiche o di qualsiasi altro contenuto. Sembra di essere in continua competizione attraverso una finta connessione fra persone. Si scambia il mezzo per il fine dando un valore eccessivo al primo e insufficiente al secondo. Non ci si accerta della nostra comprensione se corrisponde all’intenzione comunicativa di chi emette il messaggio, ma si tende talvolta ad assumere il comportamento dei leoni da tastiera o peggio degli haters per bisogni propri, che evidentemente non vengono ascoltati o espressi a sufficienza.

Oppure capita di essere a cena con amici che non si vedono da tempo e di avere tutti i cellulari sul tavolo come se la rispettiva compagnia non fosse sufficiente. Dobbiamo essere sempre connessi senza se e senza ma, ci vogliono distratti.

Ci sono vari testi davvero illuminanti e inquietanti sul business che sta dietro ad ogni minuto che passiamo su fb… sapete quanto vale? 17 miliardi di dollari! Avete capito bene ogni nostro minuto su fb vale 17 miliardi di dollari! Un altro dato inquietante è che sblocchiamo i nostri cellulari circa 80 volte al giorno che facendo un rapido calcolo, dandoci circa 7 ore di sonno su 24 significa che nelle restanti 17 ore composte da 60 minuti, sblocchiamo il cellulare ogni 12,75 minuti. Ogni giorno. 365 giorni l’anno.

I “mi piace” diventano una conferma della propria identità e soprattutto fra i più giovani questo ha potenzialmente un sacco di rischi. Fra i ragazzi va per la maggiore un sito che si chiama ThisCrush che letteralmente significa “questa cotta”, perché l’obiettivo degli ideatori era quello di dare la possibilità di superare l’imbarazzo adolescenziale di fronte a un colpo di fulmine, a un innamoramento fugace, di dichiararsi rimanendo però anonimi.

Il canale principale attraverso il quale ThisCrush si sta diffondendo è Instagram perché basta semplicemente copiare e incollare l’indirizzo Url della propria pagina ThisCrush nella descrizione del proprio profilo e il gioco è fatto. A quale prezzo e con quali rischi lo lascio immaginare a voi, ma bisogna essere al passo coi tempi e allora conosciamo questi mezzi e mettiamo in guardia i nostri ragazzi con fiducia nelle loro capacità e forse un po’ meno nelle intenzioni altrui.

Per chi non lo sapesse esistono applicazioni in cui i “mi piace” sui vari social si comprano a riprova del fatto che il mondo della comunicazione virtuale seppur importante non corrisponde sempre a realtà e dà percezioni immaginarie. L’egophonia ha preso una piega che da piega è diventata piaga sociale e io mi auguro che ognuno di noi possa dare valore alle relazioni e alle comunicazioni  dove il non verbale ha il suo spazio e dove le persone possano essere libere di esprimersi all’interno di una connessione fra esseri umani e non soltanto fra tastiere, dando a queste ultime lo spazio e il tempo che necessitano ma sapendo anche dire basta.

Mi auguro inoltre che il nostro tempo abbia sì un valore ma non determinato dal business altrui ma dai nostri interessi, bisogni e relazioni.

MAI PICCHIARE I BAMBINI: SONO PERSONE.

Oggi  voglio raccontarvi una storia realmente accaduta: è la storia di Benedetta una bambina che è stata picchiata dai suoi genitori tante volte col mestolo di legno. Era stata cattiva, doveva essere educata. Benedetta è cresciuta con la paura del dolore provocato da quel freddo manico di legno impugnato per farle male da coloro che lei amava e imitava in tutto, perchè doveva imparare e capire, dovevano educarla con le cattive perchè con le buone non era abbastanza brava. Lei era cattiva e ha pensato di esserlo finchè non ha capito che quel dolore poteva essere evitato e non era scontato, non era l’unico modo di crescere. Le violenze su Benedetta sono continuate per tutta la sua infanzia, sia verbali che fisiche: vergognati! Non vali nulla! Sei Alice nel paese delle meraviglie ovvero: quello in cui credi non esiste, noi sappiamo cosa devi fare.

Poi Benedetta è cresciuta.

Una volta, intorno ai 15 anni disse a suo padre che nella sua famiglia le mancava il “calore umano” e lui si stupì chiedendole il significato di calore umano.

A 16 anni non poteva fare una telefonata senza chiedere il permesso ai genitori e assolutamente non poteva usare lo stereo di casa perchè sennò lo avrebbe certamente rotto.

A 17 anni Benedetta ebbe la sua prima storia d’amore, un amore vero, sincero, fisico. Una sera rientrò a casa 15 minuti più tardi del previsto, trovò il portone sbarrato e dovette suonare a lungo il campanello. Quando le aprirono, per più di due ore fu picchiata a sangue dai suoi genitori, dopo alcuni pugni in faccia vide il suo sangue uscirle dalla bocca, pensò di morire accasciandosi a terra e sperò che tutto finisse alla svelta. Poi i suoi genitori andarono a letto e lei scappò di casa, aspettò le luci dell’alba su una panchina per strada e finalmente, non volendo disturbare il sonno di nessuno finchè non faceva giorno, andò dal suo fidanzatino che con la sua famiglia, a cui sarà sempre grata, la accolse e la abbracciò.

Adesso Benedetta è mamma e ha l’età per essere nonna. Tutto sommato ha fatto “pace” con quella violenza perchè sua madre era alcolista e aveva una grave malattia psichiatrica, era diventata orfana molto presto e suo padre era figlio di un padre che aveva esercitato violenza fisica e verbale anche su di lui. Benedetta ad un certo punto, per fortuna, ha capito che non era colpa sua ma dell’ignoranza e del dolore dei suoi genitori, oltre all’ignoranza del tempo in materia educativa. Però la paura dentro, lo stare sempre all’erta, la paura di sbagliare, il dolore, lo squarcio restano per sempre. Col tempo si impara a capire che anche i propri genitori sono persone, possono sbagliare senza avere l’intenzione di fare del male, per pura ignoranza e perchè sono figli della propria storia che si tramanda così fra le generazioni.

La violenza genera violenza, questo Benedetta lo aveva capito bene, ma voleva cambiare direzione con tutta se stessa.

Di quelle botte si ricorda il dolore, gli occhi vitrei di chi le faceva male mentre subiva le botte, il sentirsi spappolata dentro, il sentirsi sbagliata e incapace di farsi amare, il voler urlare BASTA! E anche la convinzione e la speranza che con i suoi figli avrebbe fatto tutto diversamente dai propri genitori, così come fece fin da piccola tentando di proteggere il suo fratellino, chiudendo la porta dove dormiva perchè non sentisse e non vedesse cosa stava capitando a lei e ai loro genitori.

Quando nascono i nostri bambini così indifesi e bellissimi, quando li vediamo per la prima volta nello schermo dell’ecografo e ci sembra un sogno a occhi aperti, sappiate che prima o poi vi assalirà la rabbia nei loro confronti. E sarà una rabbia dirompente e autentica che vorrà far smettere all’istante quel comportamento fastidioso delle vostre amate creature,  crederete che loro ne siano la causa scatenante.  Dobbiamo prepararci a questo esame di realtà che va in direzione opposta alle nostre aspettative.

A qualsiasi età, la violenza fisica, come tutte le emozioni negative, nasce da un bisogno non espresso, frustrato, ignorato, non realizzato, non ascoltato, non compreso. La rabbia ha la funzione importante di farci tirare fuori quel bisogno, ma serve avere il coraggio di ascoltare col cuore nel qui e ora e di mettersi in discussione contattando ciò che ci provoca realmente rabbia, per esempio nei confronti dei nostri figli. Non è vero che i bambini “ce le hanno tirate fuori dalle mani”, che “uno schiaffo non è violenza”, che “con le sculacciate non è mai morto nessuno” e che “con le botte si mettono i limiti”. Se vogliamo rompere il perpetuarsi fra le generazioni di certi schemi comportamentali basati sulla violenza e sul potere, dobbiamo ascoltare i bambini che abbiamo dentro quanto quelli che abbiamo di fronte. Forse avremo bisogno di chiedere aiuto e di fare un percorso di psicoterapia, perchè la reazione più semplice e immediata alla violenza subìta è la giustificazione di tale atto dandosene la responsabilità da piccoli: me lo sono meritato, hanno fatto bene, ringrazio ogni schiaffo che ho preso! Da bambini pensare in ogni caso che i nostri genitori hanno ragione è un profondo atto di amore nei confronti di chi ci ha generato, perchè ci serve il loro esempio, poichè esso sarà una nostra matrice affettiva e comportamentale a cui faremo riferimento per l’intera vita e ancora di più quando avremo a che fare con dei bambini che siano nostri o di altri. Diventarne consapevoli e prendersi la responsabilità di uscire da questi schemi comporta impegno e fatica, un’impresa durissima che costa tanto dolore e non è certo facile. La proiezione di certe emozioni negative sui più deboli su cui possiamo esercitare un potere dandoci la giustificazione a nostra volta che è colpa loro, porta a perpetuare questa violenza fra le generazioni. Non accettiamo la violenza verso gli adulti o verso gli animali, ma la riteniamo educativa per i più piccoli. Perchè?

Diamo uno schiaffo ai nostri amici, colleghi, compagni e compagne? Perchè no? Ve lo siete chiesto? Eppure volendo potrebbero difendersi efficacemente… li mettiamo “a pensare” se fanno qualcosa che riteniamo sbagliato? In questi giorni ho chiesto ad un bimbo che era stato messo sulla “seggiolina dei pensieri” dalla sua maestra, a cosa poi lui avesse effettivamente pensato e mi ha risposto “a Spiderman”!

Ha ragione lui! La seggiolina dei pensieri nacque proprio per mettere una distanza fisica fra adulto e bambino nel momento in cui le botte erano considerate un valido metodo educativo dai genitori, con lo scopo di far pensare l’adulto nella speranza che non picchiasse. Quindi pensare serve all’adulto non al bambino. Serve a dare potere alla razionalità e ad ignorare le emozioni. Ciò che realmente serve, invece, è mettere tempo e spazio fra la rabbia e la reazione violenta alla rabbia. Servono modi per scaricare la nostra rabbia di adulti e proporre ai bambini un modo di leggerla e affrontarla a qualsiasi età come un’emozione legittima, normale, vera, autentica che proviamo tutti nell’arco delle nostre intere vite. C’è differenza per gli adulti fra la premeditazione di picchiare perchè si crede che sia giusto ed educativo e se purtroppo “scappa” in preda alla rabbia. Nel tal caso, sarà necessario scusarsi coi bambini, spiegare che non è colpa loro, che c’erano altri motivi sbagliati e indipendenti da lui e lavorare su di sè perchè ciò non si ripeta. Molti sanno quanto ci si rimane male ad alzare le mani quando avevamo giurato che non l’avremmo mai fatto. Purtroppo può capitare, ma se proviamo a cambiare noi stessi stiamo tentando anche di dare un esempio diverso ai nostri figli, ai nostri nipoti e ai nostri genitori, parenti e conoscenti.

Non è mai troppo tardi per cambiare e mettersi in gioco.

Il nostro modo di agire molto probabilmente sarà scomodo, ci derideranno perchè fa male anche solo pensare che effettivamente i nostri genitori hanno sbagliato e questo renderà le cose ancora più difficili, ma la responsabilità che abbiamo travalica le nostre vite e le nostre storie, va molto più avanti e questo deve aiutarci a trovare la forza e il coraggio di metterci in gioco e di lavorarci su. Se partiamo dal rispetto per i più piccoli insegnandogli che tutte le emozioni sono importanti e hanno un nome, daremo loro un alfabeto emotivo che potranno gestire fin dalla più tenera età per tutta la loro vita, nel rispetto dei ruoli e delle emozioni di tutti. I famosi “terrible two” altro non sono che una dirompente forza fisica che i bambini provano in corrispondenza dell’incapacità di verbalizzare ciò che hanno dentro, ed è proprio lì che potremo cercare di decodificare i loro comportamenti come segnali di bisogni che ci stanno comunicando nel solo modo in cui riescono. Allo stesso modo, se un genitore torna a casa, stanco, arrabbiato per questioni sue, forse vorrebbe solo starsene un po’ in pace senza dover accudire bimbi piccoli a loro volta stanchi.

E allora fermiamoci tutti, posiamo i cellulari, spengiamo gli schermi e dedichiamoci agli abbracci e al tempo insieme, stimoliamo le endorfine, l’ossitocina e cerchiamo di limitare la nostra secrezione di ormoni dello stress e della fretta. Magari mangiamo cose semplici che si preparano in quattro e quattr’otto e non scordiamoci mai che possiamo SCEGLIERE e questa é una grande possibilità! I bambini non possono farlo, loro ci guardano e prendono esempio da noi e dalle nostre azioni! I bambini vogliono rendere felici i propri genitori, ci amano, non sono furbi e manipolatori, vogliono imparare da noi anche a dire basta. Vogliono sentirsi accettati per ciò che sentono, soprattutto se sono emozioni negative per loro incomprensibili. Un genitore responsabile cerca di comunicare anche col non verbale: accetto ciò che senti e ti accetto anche quando provi emozioni forti e negative.

I bambini perdonano sempre, gli adulti quasi mai.

Questo significa che i bambini sono piccoli tiranni a cui è permesso tutto e che i genitori non contano più nulla?

La questione delle regole e dei limiti non è in antitesi con quanto sto dicendo perchè è proprio quando riconosciamo i nostri limiti, le nostre emozioni, le nostre proiezioni di adulti che possiamo mettere un sano confine fra ciò che è nostro e ciò che è loro, evitando meccanismi di difesa inutili che generano violenza e il conseguente senso di colpa.

Le regole possono essere date senza violenza. Se siamo più accoglienti con noi stessi accettando il nostro e altrui diritto all’errore, potremmo provare a portare avanti una rivoluzione della gentilezza e dell’accoglienza, perchè essere accettati e accolti nelle emozioni negative fin da piccoli, serve a lasciarle andare e a non avere bisogno di riproporle. La posta in gioco è troppo alta per non portare avanti questi profondi temi di educazione affettiva… la possibilità di NON picchiare MAI esiste, c’è e porta ottimi risultati, ma… non è un metodo: è dignità e autorevolezza, è un esempio di rispetto ed educazione affettiva! MAI picchiare i bambini perchè sono PERSONE a tutti gli effetti non proiezioni adulte, e meritano rispetto, ascolto e accoglienza come ogni essere vivente. Meritano di essere persone autentiche anche nei momenti di difficoltà, come noi adulti meritiamo di sentire le nostre emozioni e di dargli tempo e valore. Meritano esempi di autorevolezza senza violenza, meritano esempi di gentilezza, di pace e di nonviolenza per portare nel mondo un messaggio diverso da quello che impera nella nostra società civile e moderna fatta di pregiudizi, schermi touch e connessioni via etere che però purtroppo non corrispondono a connessioni dei cuori.

E allora riflettiamo anche sul tatto e sul contatto.

Mettilo giù che lo vizi! Staccalo dal seno! Non dormire con lui! Eppure le ricerche scientifiche ci dicono che il contatto genera sicurezza e non dipendenza. Sono i pregiudizi culturali che ci fregano! Quando ero piccola si sentiva dire: Occhio che ne tocchi! Intendendo che potevo essere picchiata… allora mi domando: quando ci siamo persi il valore del tocco e del contatto come possibilità di relazione, di scambio, di comunicazione e di sicurezza e non solo come percossa? Coloro che commenteranno questo articolo dicendo che uno schiaffo al momento giusto non ha mai fatto male a nessuno e che se lo sono meritato, se lo sono mai chiesto? La nostra pelle è un organo di senso che ci dà messaggi importanti immagazzinati in memoria fin dalla nostra vita fetale verso la ricerca di contatto. È uno strumento di relazione straordinario! Nel male e nel bene. I bambini in questo senso sono competenti come gli adulti e ancora di più, perchè iniziano la loro vita senza le parole, ma con le emozioni e hanno bisogno di adulti che le sappiano leggere e decodificare per loro. E’ una grande possibilità di educazione affettiva per loro e anche per noi “grandi”.

A voi la scelta.

http://www.nontogliermiilsorriso.org/drupal/articoli/botte-fin-di-bene-non-esistono

Il sacrificio dell’allattamento

In Italia in questi giorni si celebra la Settimana Mondiale dell’Allattamento (SAM) mentre nel resto del mondo viene festeggiata durante la prima settimana di agosto. Il motivo dello spostamento a ottobre è che di solito gli Italiani in agosto sono in vacanza e quindi le iniziative della SAM andrebbero pressoché deserte. Italiani popolo di vacanzieri? Forse, di sicuro nel nostro paese tutto l’anno è ancora troppo comune sacrificare l’allattamento sull’altare del pregiudizio, dell’ignoranza e dei luoghi comuni dovuti alla nostra cultura. A cosa serve una SAM, perché tutto il mondo la celebra? Si tratta dell’ennesima campagna di esaltati della naturalità ad ogni costo? Da vari decenni le inesorabili leggi dell’economia e del marketing mondiale hanno determinato un massiccio ricorso al latte artificiale anche quando non ce n’è realmente bisogno, facendo percepire l’allattamento come una pratica che tutto sommato è facilmente abbandonabile e sostituibile con una formula artificiale creata apposta per mamme e bambini. Il sacrificio più grosso quindi è stato ed è tuttora, quello di non intendere più l’allattamento come la norma biologica di ogni mammifero, classe a cui la specie umana appartiene. In paesi come il nostro, oltre a questa variabile economica, anche le norme culturali tendono a valorizzare la separazione precoce fra madre e bambino fin dai primi mesi di vita del piccolo, “grazie” a un tabù che si riferisce al bisogno di contatto. Questo tabù è così diffuso e potente che, di fatto, può condizionare molto la relazione fra adulti e bambini fin dai primi giorni di vita. Pertanto, le cure prossimali, cioè quelle che richiedono la prossimità fra loro, dopo i primi mesi sono considerate un vizio da abbandonare con urgenza poiché probabili responsabili di danni e traumi non ben definiti nel piccolo.